Progjet la mont

brevi cenni introduttivi per un progetto di rilancio dell’area alpina

I problemi della montagna friulana sono di antica data e in una certa misura sono quelli di sempre.

L’asprezza del territorio e la durezza del clima pesano ora come cent’anni or sono, a questo s’aggiunge l’incapacità degli amministratori regionali e locali, unita ad una sorta di chiusa apatia degli abitanti rimasti, nel saper cogliere le opportunità che la modernità può offrire a chi ancora resiste in quota.

Principalmente vi sono due modi di rapportarsi alla montagna, il primo è quello di chi “vive La montagna”, escursionisti, campeggiatori, cacciatori, pescatori, biologi, geologi, sciatori, villeggianti e quant’altro.

Il secondo è quello di chi “vive IN MONTAGNA”.

Parrebbe un semplice gioco di parole, ma in quell’articoletto LA/IN c’è una delle chiavi per poter intervenire correttamente.

Fino ad ora le scelte riguardanti la montagna sono state prese quasi eslusivamente da chi al massimo apparteneva alla categoria dei LA, persone che vivono in centri urbani di pianura, Roma, Milano, Udine, Trieste, Pordenone, Gorizia, persone che mai hanno preso in seria considerazione l’ipotesi di un vero e proprio intervento alpino.

 

Da sempre abbandonati al loro miserabile destino, stremati dai disastri di due guerre mondiali, i friulani di montagna* non hanno avuto altra scelta che abbandonare i borghi natii e scendere a valle o emigrare definitivamente senza possibilità di ritorno alcuno.

Tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70 il grande esodo volgeva al termine per estinzione degli abitanti, il terremoto diede la spallata finale e da allora quelli rimasti sono là a guardare la foresta avanzare silenziosa a coprire i pascoli deserti.

Molti di loro sono diventati guardiani/conservatori ovverosia persone che impiegano tutte le loro risorse nel disperato tentativo di tenere in piedi quello che resta: riparano stalle vuote, rifanno tetti a case abbandonate, falciano prati senza aver più animali a cui dare il fieno, sistemano selciati dove non gioca più nessuno.

Fanno tutto questo per rispetto agli antenati, si sentono frustrati per non essere stati in grado di mantere quel mondo che dopo migliaia di anni di continuità era stato consegnato loro dai genitori, si guardano intorno e vorrebbero morire dalla vergogna.

Di fronte ad uno stesso scenario alpino contemporaneo mentre una persona “LA” può piacevolmente dire: che bello, che bel paesaggio, che bel prato, che bel bosco, che bel paesetto, che bei colori etc… una persona “IN” dirà invece: che disastro, non c’è più niente, solo rovine, tutto deserto, tutto morto.

Tante borgate nelle nostre Prealpi sono state raggiunte da una strada solo dopo il terremoto, nei primi anni ’80, quando oramai i più se ne erano già andati, altre già abbandonate dagli abitanti una strada non l’hanno vista mai e giacciono silenti sommerse dalla vegetazione con i tralci della vite che s’inerpicano tra i faggi e gli abeti.

Una comunità come Pradis, per esempio, è passata dai 2000 abitanti di inizio XX secolo agli attuali 150 circa, divisi tra Pradis dal Alt e Pradis dal Bas, ha una lingua propria, il ‘pradins’ (una variante importante del friulano) che sopravviverà solo se si riuscirà a riportare lassù dei bambini in tempo utile, il tempo stringe, gli anziani stanno morendo uno dopo l’altro e con loro muoiono le comunità prive di un ricambio generazionale.

Tutta la montagna friulana è una distesa ininterrotta di Pradis: Casso, Erto, Cimolais, Claut, Barcis, Andreis, Frisanco, Poffabro, Chievolis, Tramonti, Navarons, Meduno, Castelnuovo, Clauzetto, Anduins, Vît, Pielungo, Pinzano…. solo rimanendo sulle nostre prealpi, ma il disastro copre tutto l’arco alpino dal Cansiglio alle Valli del Natisone passando per la Carnia il Tarvisiano ed il Tarcentino.

La maggior parte del territorio regionale è lasciato andare alla deriva con i suoi pochi abitanti tenacemente aggrappati alle rocce, non esiste né è mai esistita alcuna politica volta ad invertire la tendenza in quei luoghi, nessuna forza politica in regione ha espresso mai un’idea per risolvere l’annoso problema nonostante il tanto tempo avuto a disposizione e montagne di retorica.

La montagna è l’anima pulsante del Friuli, se la si perde è finita per tutti, o meglio si può sempre entrare in un Mall (centro commerciale) comprare tante cose, mangiare il frico e vivere felici e contenti.

Da sempre il flusso migratorio è praticamente a senso unico, dalla montagna si scende in pianura in cerca di condizioni di vita migliori. Solo eccezionalmente si inverte, in occasione di eventi catastrofici eccezionali quali invasioni straniere o pestilenze, vorrei ricordare che la montagna diede rifugio a tanti nostri ragazzi dopo l’8 Settembre del ’43, e sempre in montagna (non in pianura) sorse nell’estate del ’44 una Libera Repubblica, furono gli unici metri quadri di libertà all’interno dei confini del Terzo Reich.

Finito il conflitto la ricompensa per i sacrifici immani sopportati dagli abitanti di quelle valli è stata quella sopra descritta.

Da sempre la montagna è quindi il nostro ancestrale rifugio.

Fino al XX sec. la maggior parte delle comunità montane restavano isolate dalla pianura per mancanza di strade, comunità vissute in regime di quasi totale autonomia fino alla conquista napoleonica.

Nemmeno la Serenissima riuscì ad imporre il suo completo dominio a queste genti, a stroncarne il contrabbando, a incassare dei tributi, come gli sgherri veneziani provavano a risalire le valli venivano semplicemente sterminati a furor di popolo.

Le comunità erano divise in clan, e la società era così composta:

Siors, membri dei clan dominanti, possedevano la maggior parte di pascoli e foreste, una sorta di micro land lords.

Omps, uomini liberi, essere libero per un friulano di montagna vuol dire poter provvedere al mantenimento della propria familia con le proprie forze senza dover chiedere niente a nessuno, neanche a Dio, nessun obbligo, nessun vincolo.

Sotans, persone che dipendono da altri per il proprio sostentamento e di conseguenza perdono la dignità, oggi giorno per sotan si intende un politico servo di sorestans-foresti (padroni stranieri, romani, milanesi etc).

Si noti a questo punto una continuità con le società arcaiche/celto/germane, i Longobardi per esempio erano divisi in clan-fara, e la fara era composta da: lords-signori, arimanni-uomini liberi e servi.

È chiaro che qualsiasi intervento nelle suddette aree geografiche non può avvenire senza il consenso delle popolazioni residenti.

Qualsiasi intervento disgiunto da tale consenso (calato dall’alto) sarà osteggiato o quantomeno subito passivamente dagli abitanti, si risolverà quindi in un inevitabile fallimento, perdita di tempo e di denaro.

Il consenso della popolazione, è questa la condizione principe per affrontare il problema montagna, ma non un consenso passivo, ne serve uno attivo che liberi quella forza devastante che ogni friulano di montagna ha dentro.

A queste persone prima di ogni altra cosa va restituita la dignità, mai più si dovranno sentire gli ultimi, mai più umiliati e abbandonati (un pensiero va al Vajont).

I tempi sono ora maturi per una radicale inversione di tendenza e i friulani di montagna potrebbero essere i primi al mondo a sperimentare i benefici di una società altamente High Tech e profondamente arcaica al tempo stesso, senza rinunciare al loro essere montanari immersi nella natura, senza rinunciare ai vantaggi della modernità, non un rancido e funereo conservatorismo folkloristico, ma un reale progetto di sviluppo e crescita nel totale rispetto dell’integrità culturale delle popolazioni interessate.

Spetta alla Regione promuovere, organizzare e sostenere un progetto complesso ed importante volto a tutelare la popolazione montana, fermarne l’esodo e implementarne il numero favorendo uno spostamento di gioventù dalla pianura, tra questi ovviamente avrà la priorità chi da quei luoghi è originario.

La vita in montagna è una vita dura, fatta di solitudine e condivisione, i friulani di montagna nel corso di millenni passati su quei sassi hanno elaborato un loro modo di rapportarsi al prossimo e all’ambiente, sicuramente funzionale per l’esistenza in quei luoghi. Bisogna quindi solo connettere questa sensibilità alle possibilità offerte dal nuovo millennio.

Intervenire in realtà prossime al collasso, trasformare delle realtà moribonde in centri di ricerca e produzione, capaci di far ripartire un’economia alpina e di rigenerare un tessuto sociale, questo è l’obiettivo, certo ambizioso, ma improrogabile.

All’interno di un più generale piano di riorganizzazione della Regione, una delle priorità sarà la riconversione agricola, abbandono della monocultura, rigenerazione dei suoli, ripristino delle siepi e dei fossi, eliminazione della chimica dalla catena alimentare, ritorno del letame nei campi etc.

Riconvertire l’agricoltura in pianura richiederà tempo, mentre in montagna si può disporre da subito di spazi immensi ora abbandonati o ricoperti dalla selva, ma intatti sotto l’aspetto chimico-organolettico.

Serviranno quindi dei centri per la formazione dei neo-contadini e dei neo-allevatori, questi centri non dovranno essere dei semplici istituti formativi, ma dovranno crescere fino a diventare una vera e propria comunità, dovranno diventare delle vetrine della modernità/futuro, la prova tangibile e reale “che un mondo migliore è possibile” non domani, ma oggi, saranno delle unità produttive aperte ai visitatori, i cittadini avranno così la possibilità di valutare autonomamente la riuscita o meno del progetto e potranno toccare con mano il loro futuro.

L’idea fondante nasce dallo studio delle comunità alpine.

Piccole comunità in relazione tra loro composte generalmente da consanguigni, endogame, con un forte senso di appartenenza, così forte da considerare straniero chiunque provenga da una qualsiasi altra località.

La lingua è lo strumento primo per determinare l’appartenenza o meno di un individuo ad una comunità, un abitante di Orton (borgata di Clauziet con una dozzina di resistenti ) per esempio, considera abitanti di Orton solo coloro i quali risiedono nel borgo, pochi metri più in là e si è membri di un’altra comunità.

Un di Orton considera poi come affini tutti gli abitanti dei borghi che insieme formano Pradis dal Alt, mentre gli abitanti di Pradis dal Bas benché affini già sono percepiti come altro e quindi oggetto di dileggio “a Pradis dal Bas il clima è malsano, vivono nell’umido” etc…

Nei confronti degli abitanti di Clauzetto (Vile) l’atteggiamento è di fraternaostilità, benché “parlano come noi”, sono comunque scherniti pesantemente e fino a quando erano presenti dei giovani nel borgo sono continuati i “dispetti” gli “scherzi” e le schermaglie, vanto e orgoglio dei giovani di Orton che sebben sempre inferiori numericamente mai temevano di affrontare “chei de Vile” considerati dei rammolliti, anzi.

Dopo l’ultima casa di Clauzetto inizia un altro mondo dove vivono persone che “non parlano come noi”, foresc, stranieri, ancor oggi la strada che da Clauzetto scende in pianura dai locali viene ancora chiamata “le vie dal tul”, Tul, arcaica voce preromana il cui significato è confine.

di Marco Vadori

*per friulani di montagna si intendono tutti i residenti dei comuni montani siano essi di lingua Latina Slava o Germana